La Dott.ssa Moscatelli ci spiega la differenza tra cure palliative e cure attive
Si sente spesso parlare di cure palliative in contrapposizione alle cure attive volte alla guarigione da una patologia. Abbiamo chiesto a Giancarla Moscatelli, Direttrice Sanitaria dell’Hospice di Abbiategrasso, di spiegarci quali sono le principali differenze tra le due discipline.
Giancarla, in che cosa si distinguono le cure palliative rispetto al resto della medicina?
Parliamo di cure palliative quando la diagnosi evidenzia una prognosi infausta senza alcuna possibilità di guarigione. Le terapie attive, se ci soffermiamo solo all’ambito oncologico, sono la radioterapia, la chemioterapia o gli interventi chirurgici. Tutti questi interventi hanno, almeno potenzialmente, esito positivo. Per sintetizzare possiamo dire che le cure palliative intervengono sul sintomo della malattia (es. dolore) mentre le cure attive lavorano sulla causa della patologia.
Però se partiamo dalla definizione di cure palliative, “interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati alla cura attiva” si rischia di fare confusione. Perché l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) finalizza le palliative alla “cura attiva”?
Il pensiero di molte persone identifica le cure palliative come un’entità astratta che non ha nulla a che fare con le terapie attive. La realtà è ben diversa e infatti i nostri interventi farmacologici sono attivi nel senso che intervengono positivamente sul dolore e sugli altri sintomi causati dalla malattia.
Sempre la definizione OMS indentifica le cure palliative come un insieme di trattamenti terapeutici e assistenziali. Quali sono i trattamenti più comuni?
Solitamente i trattamenti terapeutici riguardano la gestione del dolore e della sofferenza con farmaci quali il paracetamolo (la comune Tachipirina) o la morfina (di cui abbiamo già parlato con la Dott.ssa Baratto) con l’obiettivo di mantenere o migliorare la qualità di vita del paziente. Quelli assistenziali sono volti invece ad assicurare un ambiente conforme allo stile di vita e di salute della persona malata. Per intenderci, ci concentriamo sull’igiene quotidiana del paziente, che deve essere massima per garantire la dignità della persona, e sullo stimolare le abilità residue. Per esempio un paziente che arriva allettato dall’Ospedale riceverà, laddove possibile, una serie di interventi fisioterapici con la finalità di consentirgli quantomeno di lasciare ogni tanto il letto. Non facciamo i miracoli, però lavoriamo sul paziente a 360 gradi, anche sulle relazioni, e nei casi in cui rileviamo un disagio psicologico, un bisogno di compagnia o un supporto sociale attiviamo le nostre risorse per colmare queste lacune.
E l’alimentazione, quanto conta per una persona assistita in cure palliative?
L’alimentazione è vita, dunque è importante. Ciò a cui teniamo particolarmente è consentire al malato di vivere questo momento come un piacere e non come un’imposizione. È un pensiero comune, specie quando ci confrontiamo con i famigliari, considerare in buona salute chi si alimenta. Spesso, nella vita di tutti i giorni, questo è vero. Nel caso di un paziente non guaribile non è così. Ad ogni pasto noi cerchiamo per prima cosa di capire e di rilevare l’eventuale fatica della persona a cibarsi. Moduliamo l’alimentazione sulla base di questa difficoltà e introduciamo spesso frullati o cibi morbidi in base alle richieste che riscontriamo. Il tutto curando anche la presentazione della pietanza perché l’appagamento visivo è altrettanto importante. Il nostro motto è: Assai digiuna chi mal mangia.
Quindi ci sono differenze di alimentazione per i pazienti in cure palliative rispetto agli altri pazienti?
Certamente. Noi non alimentiamo a tutti i costi le persone malate per consentir loro di recuperare le forze, perché sarebbe una fatica inutile per loro. Piuttosto moduliamo la dieta in base alle necessità e alle condizioni del malato. Un’astenia (assenza di forze) si può contrastare con un’alimentazione iperproteica o una disfagia (difficoltà a deglutire) con un’acqua in gel. Banalizzando, ma non troppo, non sempre ci soffermiamo sulle conseguenze che un cucchiaio di gelato può avere per un malato con diabete perché se quello è il suo desiderio, quella è qualità di vita.