Medici in cure palliative: quali cambiamenti con la Dgr. 5918/16?
Regione Lombardia alla fine del 2016 ha introdotto importanti cambiamenti nell’ambito delle cure palliative. Alcune modifiche hanno interessato in particolare l’area medica e le qualifiche per diventare medici palliativisti. Abbiamo chiesto alla Dott.ssa Giancarla Moscatelli, Direttore Sanitario dell’Hospice, di raccontarci l’evoluzione in questo settore.
1) Giancarla, quali importanti cambiamenti ha introdotto, per i medici, la Dgr. 5918/16 di Regione Lombardia?
Di fatto ha specificato quali medici possono erogare prestazioni in cure palliative raggruppandoli in due macro categorie: medici specialisti e medici in servizio presso le Strutture accreditate dedicate alle cure palliative. Nella prima categoria rientrano i medici con specializzazioni afferenti alla disciplina delle cure palliative: anestesia e rianimazione, ematologia, geriatria, medicina interna, malattie infettive, neurologia, oncologia, radioterapia. Nella seconda vengono inseriti i medici che sono in possesso di un’esperienza almeno triennale nel campo delle cure palliative.
2) Dunque non esiste una vera e propria specializzazione in cure palliative. Se dovessi consigliare un iter accademico per diventare palliativista, quale proporresti?
Negli ultimi anni si sono affacciati a questa disciplina diversi enti formatori con una serie di proposte. È doveroso ricordare che la Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso in Medicina ha approvato, dal prossimo anno accademico, l’inserimento obbligatorio nel corso di Medicina e Chirurgia di moduli formativi specifici in Cure Palliative. Dunque, mi sento di consigliare la laurea in Medicina e Chirurgia e al termine di frequentare il Master di Secondo Livello in Cure Palliative e restare aggiornati frequentando i corsi di formazione erogati sul territorio.
3) Le cure palliative sono una branca della medicina che si caratterizza per l’approccio “umano”. Cosa significa?
Io, come tanti altri professionisti in questo settore, mi pongo accanto alla persona e non alla malattia. In questo l’aspetto umano e di relazione assume importanza cruciale ed in particolare l’ascolto e la predisposizione di un tempo per l’attesa. Attendere significa costruire un’intesa con il paziente e suoi famigliari, significa realizzare un’intesa rispetto alle aspettative e alla comprensione della malattia e dalla sua evoluzione, vuole dire rispettare i tempi di scelta e di decisione della persona malata. Anche se il periodo di assistenza nel nostro settore è spesso ridotto a poche settimane, la relazione che proviamo ad instaurare deve riuscire a cogliere le paure e i timori dell’ammalato affinché questi vengano accolti, sostenuti e non ignorati o banalizzati. La relazione umana intensifica e rende più nobile l’intervento dei professionisti perché ogni volta va a modellarsi e adattarsi ai bisogni dei pazienti e dei loro famigliari.
Questi elementi non vengono insegnati nel percorso accademico ma sono frutto dell’esperienza e della sensibilità che ognuno mette nel proprio lavoro.
4) Sei in Hospice da circa 20 anni, raccontaci come è cambiato il tuo lavoro in questi anni.
In questi anni le cure palliative sono molto cresciute e sono diventate sempre più un mondo di professionisti. Indubbiamente sono migliorata dal punto di vista lavorativo ma, anche grazie alle centinaia di persone che ho conosciuto e assistito, e grazie ai miei colleghi, sono molto cambiata sul piano personale. Il mio più grande traguardo, in campo medico, è aver imparato a lasciarmi interrogare. Per spiegarmi meglio posso direi che la routine, anche in casi che la prevedono, non mi appartiene. Non somministro le terapie basandomi solamente sulla mia esperienza e i miei studi ma costruisco, insieme all’equipe, la relazione con la persona malata che, in questo modo, mi guida a prendere la decisione migliore sulla base dei suoi bisogni e sulle sue aspettative. Non sono solo gli esami clinici a comunicarci i bisogni del paziente, spesso è dalla relazione che emerge qualcosa che un test non è in grado di rivelare.
In questi anni ho imparato a non avere fretta, a concedere e concedermi tempo, a parlare con i famigliari quando il paziente non è in grado di comunicare. Se dovessi descrivere il mio lavoro con un’immagine la sceglierei a colori. Un’immagine con quegli stessi colori che osservo nel paesaggio estivo quando il temporale è ormai passato, il sole torna a risplendere e rimanendo ad osservare in un angolo appare l’arcobaleno.