L’infermiera Claudia: lascio le cure palliative per lavorare in ospedale

L’infermiera Claudia: lascio le cure palliative per lavorare in ospedale

Dopo quasi cinque anni di esperienza nelle cure palliative in hospice e al domicilio l’infermiera Claudia Balzarotti ha deciso di affrontare una nuova avventura professionale in ospedale. Una scelta coraggiosa in momento in cui gli ospedali stanno lentamente smaltendo il carico di lavoro causato dal Covid-19.

14/4/2021 | Racconti ed interviste
L’infermiera Claudia: lascio le cure palliative per lavorare in ospedale

Ciao Claudia, com’è iniziata la tua avventura con l’Hospice di Abbiategrasso?

È iniziata nel dicembre del 2015 quando il mio contratto con l’RSA dove lavoravo stava per scadere. L’Hospice cercava un infermiere e io mi sono candidata pur avendo alle spalle solo 11 mesi di lavoro nel mio settore. Era da meno di un anno che avevo terminato la laurea in infermieristica e sono stata ben contenta di cimentarmi con le cure palliative. Ho trascorso il primo anno lavorando nel reparto di degenza dell’Hospice e successivamente ho iniziato con l’assistenza domiciliare in cure palliative (UCP Dom.).

Che differenze hai trovato tra le RSA e l’Hospice?

Le cure palliative assistono pazienti che solitamente hanno situazioni cliniche complesse e richiedono una maggiore attenzione. Inoltre, le cure palliative hanno anche una filosofia di base, un modus operandi che pone il focus sul malato e che potremmo sintetizzare con la frase: “il paziente è al centro!” La principale differenza riguarda proprio questo: avere un piano di cura personalizzato per ciascuno. In hospice e in generale nelle cure palliative l’infermiere ha modo, tempo e risorse per dedicarsi completamente ad ogni paziente e realizzare un’assistenza personalizzata. Nelle RSA non è così per diverse ragioni: numero di assistiti per infermiere molto superiore rispetto al contesto degli hospice; aspetti del lavoro rutinari come per la somministrazione terapie e per le medicazioni. È chiaro che l’aspetto relazionale e la personalizzazione della cura, che sono punti cardine dell’assistenza in hospice, in RSA vengono un po’ sacrificati.

Tornando al tuo lavoro di assistenza domiciliare, quanto ti hanno lasciato questi quattro anni?

Tantissimo, sia dal punto di vista professionale che personale. L’assistenza domiciliare è un po’ un campo di battaglia perché si lavora in autonomia e l’infermiere deve essere preparato su due fronti: aspetti tecnici e aspetti relazionali. Questa componente autarchica mi ha fatto crescere moltissimo a livello lavorativo e mi ha fatto apprezzare la figura del case manager. Gli anglosassoni usano questo termine per individuare quel professionista, spesso un infermiere, che interviene nell’assistenza governando a 360 gradi il percorso di cura del malato. Dalla rilevazione dei bisogni il case manager legge l’evoluzione della malattia e coordina i diversi interventi dei professionisti coinvolti: medico, psicologo, fisioterapista, ecc. Quello che l’infermiere in cure palliative realizza con l’equipe dell’Hospice di Abbiategrasso è molto vicino al concetto anglosassone di case management. In questi anni di Hospice e Cure Domiciliari ho avuto anche il ruolo di tutor per alcune colleghe. Ho guidato Dalila, fresca di laurea, a muovere i suoi primi passi in hospice. Ho affiancato Alice quando ha dovuto iniziare con l’assistenza domiciliare. È un ruolo, quello del tutor, che mi ha molto gratificato e che se realizzato con volontà e passione non influisce molto sul carico di lavoro.

Quante ore lavora in media un infermiere dell’UCP Dom?

Lavoro parecchio già in periodi normali e in questo particolare momento di emergenza anche di più. Purtroppo non è tutto tempo dedicato all’assistenza perché ci sono aspetti burocratici da gestire. La compilazione delle cartelle cliniche, i follow up telefonici, la preparazione degli elastomeri, l’organizzazione dei farmaci da lasciare al domicilio, ecc. Una serie di attività alle quali durante l’emergenza sanitaria si sono aggiunte le procedure di contrasto al covid: igienizzazione; vestizione, sanificazione degli spazi, ecc. Tutte operazioni che contribuiscono ad aumentare lo stress e le ore di lavoro.

È per questo che lasci l’Hospice di Abbiategrasso?

No di certo! Lavoro tanto ma non mi posso lamentare con nessuno: il gruppo è fantastico. Inoltre non credo che in Ospedale si sia meno impegnati. Io vorrei lavorare nell’area critica: rianimazione, terapie intensive, pronto soccorso, ecc.  In particolare, mi piacerebbe il pronto soccorso perché credo che l’esperienza in cure palliative mi agevolerebbe. Anche se sembrano due ambiti opposti e con finalità diverse, credo che nella pratica ci siano dei punti di contatto tra questi due servizi: dover avere a disposizione un ampio bagaglio di competenze tecniche, prendere decisioni in modo tempestivo e confrontarsi con situazioni cliniche che evolvono rapidamente. In questo ci vedo molte analogie con il pronto soccorso dove rapidità, competenze e autonomia sono i requisiti base di un infermiere. Dunque no, non cambio per ridurre il carico di lavoro ma solo perché ho 29 anni e tanta voglia di mettermi in gioco con nuovi stimoli.

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