Il medico risponde. Sintomi: l'approccio nelle cure palliative.
I sintomi sono tutti uguali? Si possono affrontare anche quando la persona malata non ha speranza di guarigione? E, soprattutto, cosa sono i sintomi? Abbiamo cercato di capirlo facendo una chiacchierata con la Dott.ssa Sara Baratto, medico palliativista in forza all’Hospice di Abbiategrasso.
1) Quali sono i sintomi più rilevanti per un medico in cure palliative?
Prima di descrivere la rilevanza dei sintomi è opportuno dare una definizione di questa parola. Non mi riferisco alla sua etimologia ma ad un significato più profondo. Per poter conoscere un sintomo, ossia ciò che rende evidente uno stato patologico, dobbiamo parlare con il paziente creando con lui una relazione di fiducia ed un ascolto profondo che non si limiti a percepire il disagio superficiale dovuto ad una condizione clinica. Ecco dunque che non esistono dei sintomi più o meno rilevanti per il medico palliativista. La loro rilevanza è direttamente proporzionale al percepito dal malato: più il sintomo disturba il paziente, più sarà importante per chi lo assiste.
2) Quali sono i sintomi che più frequentemente il paziente segnala?
Spesso durante le visite e i colloqui noto che alcuni sintomi sono più segnalati rispetto ad altri. Il dolore, ad esempio, è presente in quasi tutti i casi ma è anche facilmente affrontabile. Per il controllo del dolore abbiamo tanti strumenti – parlo di terapie – che possono dare una risposta efficace in breve tempo. Ci sono però sintomi che mettono più in difficoltà il medico: astenia, inappetenza, nausea, stitichezza e dispnea. Sono parole con cui i non addetti ai lavori hanno poca famigliarità ma che riscontriamo davvero frequentemente. L’astenia è una sensazione di spossatezza globale, una percezione di svuotamento di tutte le forze corporee. Le terapie in questo caso sono poche, ciò che possiamo fare è lavorare per creare un ambiente che sia il più accessibile e confortevole per il malato. In tanti casi l’astenia va a braccetto con l’inappetenza, ossia il rifiuto del cibo, che a sua volta si lega con la nausea. Il medico non ha a disposizione molti strumenti per contrastare l’inappetenza ma spesso educa e aiuta la famiglia a trovare soluzioni per rendere più appetibile un pasto. La stitichezza, un disturbo del tratto gastroenterico, può sembrare banale ma è di frequente la causa di altri sintomi. Per fortuna oltre ai farmaci esistono strumenti alternativi (cibi e parafarmaci) che consentono di non incrementare il carico di farmaci a cui il malato è sottoposto. Invece la dispnea, ossia una difficoltà respiratoria che può nascere anche da problemi emotivi come l’ansia, può essere curata con strumenti che a volte spaventano. Uno di questi è la morfina di cui abbiamo già parlato nella precedente intervista.
3) Ci sono differenze tra quello che segnala il paziente e il percepito del famigliare?
Assolutamente sì. Capita che quando si propongono alcuni farmaci, ad esempio quelli sul dolore, chi assiste il malato sia reticente al loro utilizzo e cerchi di far valere il proprio vissuto con frasi del tipo “ma no, è un dolore che hai sempre avuto” oppure “non esagerare, è colpa dell’artrosi con cui convivi da anni”. Le persone si mostrano spesso impaurite davanti all’uso degli oppiacei e per questo tendono a ridimensionare i sintomi che il paziente segnala. Ci sono però alcuni sintomi che sono, per così dire, valorizzati e assumono agli occhi del famigliare un’importanza che spesso non meritano. Mi riferisco, ad esempio, all’inappetenza e alla sua dimensione di convivialità che, specie nel nostro paese, è percepita come fondamentale. In pratica, a volte sembra che sia più importante per un famigliare il rifiuto del pasto da parte del paziente piuttosto che l’assenza di dolore. C’è una sorta di ritorno all’infanzia in cui la persona malata viene vista quasi come un bambino capriccioso che non vuole mangiare, dimenticando che invece è proprio la condizione di malattia che nega al malato anche questo piacere.
4) Ci sono sintomi che sono legati direttamente alle terapie?
Sì, alcuni farmaci hanno effetti collaterali prevedibili che noi anticipiamo al malato e a chi lo affianca. Gli oppiacei, ad esempio, causano stipsi e possono provocare nausea. Ci sono effetti collaterali, invece, che non sono prevedibili e che costringono il palliativista a registrare qualsiasi mutamento inatteso. Ciò che però è davvero importante per un palliativista è modulare la terapia rispetto a quanto segnalato dal paziente. Ecco dunque che la relazione medico/paziente risulta più significativa che in altri contesti e si sviluppa attraverso un intenso dialogo con la persona malata perché, come ha detto Papa Francesco: Il dialogo nasce da un atteggiamento di rispetto verso un’altra persona [..] Per dialogare bisogna sapere abbassare le difese, aprire le porte di casa e offrire calore umano.