Emergenza Coronavirus: in Hospice grazie all’esperienza del passato non siamo impreparati
Il lavoro nell’ambito delle cure palliative ha permesso alla Dottoressa Giancarla Moscatelli di essere nominata nel 2018 Direttore Sanitario dell’Hospice di Abbiategrasso. Proprio lei, che professa la sua attività in via Dei Mille dal 1999 grazie alla sua specializzazione in Infettivologia (allora erano ricoverati i malati di AIDS) conseguita al Sacco di Milano, ci parla dell’emergenza Coronavirus e di come si sta affrontando la situazione in Hospice.
Buongiorno Giancarla, quali misure sono state messe in atto all’Hospice per contrastare la diffusione del COVID-19?
Buongiorno. Siamo partiti dalle Direttive divulgate dal Ministero della Salute e in particolare da Regione Lombardia che invia quotidianamente le indicazioni da mettere in atto nei contesti qual è il nostro. Abbiamo immediatamente limitato gli assembramenti nella struttura, dotato i nostri operatori degli opportuni Dispositivi di Protezione Individuale come guanti, camice, mascherine e all’occorrenza gli occhiali. Ovviamente il tutto compatibilmente con la disponibilità, ad esempio abbiamo un numero adeguato di camici, guanti e occhiali a disposizione, ma rispetto alle introvabili mascherine FFP3 siamo parsimoniosi: avendone solo una ventina - e siamo tra le strutture più fortunate - le diamo in uso agli operatori che assistono persone con sintomi simil-influenzali. Ogni volta che l’operatore entra in camera del ricoverato deve dotarsi di tutti questi dispositivi per tutelare la salute del paziente stesso.
Anche al domicilio prestiamo particolare attenzione al contenimento del virus. Essendo tutti noi potenziali vettori, così come tutta la popolazione italiana, dobbiamo garantire la massima tutela per il paziente che si trova presso la sua abitazione. Prima di entrare in casa, infatti, i nostri operatori indossano guanti, camice e mascherina chirurgica (FFP1) e, una volta terminata l’assistenza, ripongono il tutto in un sacco che sigillano e gettano nel cesto dei rifiuti.
Di certo non è possibile controllare le persone che entrano nelle case dei pazienti, però in Hospice è un po’ più semplice. Com’è cambiata la situazione per i visitatori?
Innanzitutto l’Hospice è stato tappezzato - passami il termine – di cartelli informativi e avvisi nei vari punti di accesso alla struttura e nelle parti comuni. Oltre alle indicazioni di carattere “generalista” (lavarsi frequentemente le mani, starnutire nel gomito, ecc) ne abbiamo fornite alcune più specifiche. Vietiamo l’ingresso alle persone che vengono o sono state nelle zone rosse. Chiediamo a chi presenta sintomi simil influenzali di non accedere alla struttura e, nel caso i sintomi siano lievi, chiediamo loro di utilizzare la mascherina FFP1 che mettiamo a disposizione. Gli accessi nelle camere sono stati limitati ad un visitatore per volta e tutte le attività di supporto, volontariato, riunioni, musicoterapia, arteterapia e pet therapy, sono state sospese fino a diversa indicazione da parte delle Regione. Abbiamo però deciso di mantenere attivi due servizi di volontariato che in questa situazione sono cruciali: l’accoglienza all’ingresso e il servizio di stireria. La stireria è importante in un momento come questo perché chiediamo una maggior disinfezione di tutto, dunque anche degli indumenti dei pazienti. L’accoglienza invece diventa un filtro fondamentale per indirizzare i visitatori e per far loro rispettare le indicazioni di cui ti parlavo.
Per te che sei in Hospice da anni e hai vissuto l’epoca dell’emergenza AIDS cos’è cambiato?
L’emergenza di oggi è molto diversa da quella che si viveva negli anni novanta, ma le misure che abbiamo messo in atto nella nostra attività quotidiana sono identiche. La cosa più curiosa è vedere la differenza tra noi operatori “storici”, intendo chi è da almeno 15 anni a servizio dell’Hospice, e tutti gli altri. Chi ha indossato per la prima volta queste protezioni ha manifestato una certa difficoltà nella relazione con il paziente. Nulla di grave, solo un po’ di imbarazzo e d’impaccio per loro, ma per noi che eravamo abituati ad assistere i malati con queste protezioni è stato un ritorno al passato. E in questo ci siamo sentiti tutti più giovani (ride, ndr). Per il resto, si registra un netto calo dei visitatori e i pochi che vengono sono po’ spaesati ma molto collaborativi. Lo stesso si può dire delle persone malate e dei famigliari che assistiamo al domicilio: i primi giorni erano un po’ imbarazzati e ci vedevano come degli alieni, ma ora si sono abituati. La reazione della cittadinanza invece non è paragonabile. L’AIDS spaventava tutti e poi era associata a determinati stili di vita e a certe tipologie di persone: tossicodipendenti, omosessuali, prostitute, ecc. Il coronavirus, invece, è drammaticamente democratico perchè può colpire tutti indistintamente. Direi che in questo momento nessuno ha paura dell’Hospice, anche perché non ce ne sarebbe ragione.
Rispetto ai tuoi anni di studio e lavoro all’Ospedale Sacco di Milano, oggi in prima linea contro il Coronavirus, cosa ti senti di dire pensando alle persone che lavorano lì?
Per i miei ex colleghi e per tutta la gente che lavora in quell’Ospedale si tratta di un momento molto significativo. Lo dico in senso positivo perché se è vero che questa epidemia li ha messi a dura prova e li sta facendo lavorare giorno e notte, è altrettanto vero che per tutti loro dev’essere estremamente stimolante. Per me negli anni ’90 era così: affrontavamo le epidemie con rigore professionale ma senza distacco, anzi c’era, e sono sicura c’è anche ora, la voglia di essere presenti per dare il proprio contributo alla causa. Sono certa che stanno lavorando al massimo per il bene di tutti e voglio rivolgere un grosso grazie a tutti loro per quello che stanno facendo.